Il paese del drago volante

Ci sono due modi attraverso i quali la maggior parte dei turisti entrano in Buthan (il paese del drago volante), volando (inutile dirlo), in tal caso si atterra obbligatoriamente a Paro, oppure via terra dall’India, attraversando il posto di frontiera di Phuntsholing. Posso solo immaginare che effetto faccia atterrare a Paro, infatti l’aeroporto si trova al fondo di una vallata verdissima stretta tra cime himalaiane coperte di foreste ed è considerato uno degli atterraggi più impegnativi del mondo, ma l’arrivo via terra è sorprendente. Noi siamo arrivati via terra provenendo dal Sikkim costeggiando il Nord Bengala e l’attraversamento della frontiera è stato sconcertante. Il paese di Phuntsholing è diviso a metà dal confine. La parte indiana è piuttosto cadente, strade dissestate, enormi pozze di acqua maleodorante, cumuli di rifiuti, ed escrementi ovunque, ma appena si attraversa l’arco che segna il confine ci si trova in un altro mondo. Tutto è pulitissimo, le case sembrano chalet svizzeri con le facciate bianche e decorate con complicati intagli di legno e dipinti. Uomini e donne indossano un tipico kimono multicolore di tessuto fatto a mano con grandissimi polsini di un bianco impeccabile, scolari in divisa dai faccini sorridenti girano per le strade in gruppo.

Siamo subito stati portati in albergo. In frontiera per le formalità doganali, si può andare in un secondo tempo, dopo il chek-in in albergo. Un sorridente funzionario, con un computer nuovo di zecca, ci ha aiutati a compilare un lungo questionario, ha memorizzato impronte digitali, e fotografie (divertendosi moltissimo alla vista delle immagini “stile ricercato” che ne venivano fuori, e fotografandoci di nuovo finché non ci ha trovati “carini”). Nel paese si può entrare soltanto se il viaggio è stato organizzato da una agenzia turistica locale. Tutto questo perché il governo vuole evitare l’impatto negativo che il turismo di massa potrebbe avere sulla popolazione locale. L’agenzia concorda l’itinerario, prenota gli alberghi, e fornisce ai turisti (soli o in gruppo) una guida , un autista ed un mezzo di trasporto privato.

Il Bhutan ha un paesaggio molto vario. E’ un rettangolo con il lato maggiore Est-Ovest di circa 300Km e l’altro di circa 150 costituito da una serie di vallate parallele con direzione Nord Sud, separate da altissime catene di montagne (3550-4500mslm). Il confine Nord verso il Tibet è caratterizzato dalle vette più alte che superano i 7500m. Il paese è attraversato da Ovest (ove si trova la capitale Thimphu) ad Est, da un’unica strada tortuosissima che a pochi chilometri dalla capitale diventa ad una corsia sola (per tutti e due i sensi di marcia, costringendo ad ardite manovre in caso di incrocio tra due veicoli), non esiste ferrovia, e quindi per attraversare il paese in tutta la sua estensione occorrono parecchi giorni. Ogni vallata, e si può dire ogni versante, ha un suo differente ecosistema. Intere vallate sono ricoperte da rododendri giganti, altre da sequoie himalaiane, altre ancora da foreste tropicali di bamboo. Il tutto è pervaso da centinaia di specie diverse di orchidee. In ogni vallata l’architettura è un po’ diversa, ma ovunque si incontrano monasteri, templi e palazzi impressionanti sia per la bellezza delle forme e delle decorazioni che per la posizione.

La cosa che resta più impressa del paese è la sua gente. Fin dal primo giorno abbiamo incontrato ovunque persone che facevano girare ruote della preghiera con una mano, mentre nell’altra tenevano il cellulare. E’ questo contrasto stridente , tra fede assoluta e tecnologia, che rispecchia la personalità dei butanesi. La religione di gran lunga più diffusa è il Buddismo himalaiano (anche definito Lamaismo o Tantrismo a seconda delle sette) Si tratta di una religione diffusasi dal Tibet (con il quale il paese è stato fortemente legato da tempi immemorabili fino all’invasione del Tibet da parte della Cina nel 1957) derivante dalla fusione tra il Buddismo e le precedenti religioni animiste Bon e Partibon. In pratica alla classica filosofia buddista si è sovrapposto un ricchissimo panteon locale di divinità e di spiriti legati ad ogni singola manifestazione naturale o ad ogni luogo , essere vivente , o pietra. La religiosità permea la vita quotidiana di tutti gli abitanti e ne plasma i gesti ed il comportamento. E’ difficile immaginare di incontrare persone più miti e gentili nei rapporti personali. Non sentirete mai un Butanese arrabbiato o anche solo leggermente alterato. Arrabbiarsi è considerato un peccato mortale e quindi fin dall’infanzia si impara ad evitare la collera come uno dei nemici più mortali dello spirito. Per come sono organizzati i viaggi in Buthan le interazioni sono continue sia con la propria guida ed il proprio autista, sia con la popolazione locale, che è ovunque molto amichevole e curiosa nei confronti dei turisti. Ci è capitato più volte che qualcuno ci chiedesse di potersi far fotografare con noi.

Sono stata ostaggio per un’oretta di una anziana signora intenzionata a proteggere la mia anima e migliorare il mio karma. . I monasteri sono circondati da una serie di cilindri di legno in grado di ruotare sul loro asse verticale decorati con la scrittura di alcuni mantra (tipicamente sono 108, ma a volte molti di più), che i fedeli devono fare ruotare in senso orario recitando le loro preghiere . La signora in questione si è accorta che nel far ruotare i cilindri talvolta ne saltavo qualcuno e non recitavo correttamente il mantra ( Hom mhani padma hum)(la grafia può variare) ed allora mi ha fatto ricominciare il giro da capo ed ha controllato che ripetessi il mantra correggendomi finché non l’ho pronunciato correttamente, e non mi ha lasciata finché non sono arrivata alla fine del giro (sempre in senso orario).

Spesso percorrendo una strada ci siamo imbattuti in uno stupa che talvolta si trovava su una rotonda. Il nostro autista non tralasciava mai di circumnavigarlo con l’automobile (rigorosamente in senso orario). Le prime volte pensavamo avesse sbagliato strada e volesse tornare indietro, poi ci ha spiegato che lo faceva per migliorare il nostro, Karma. Nel corso del viaggio abbiamo visitato parecchie decine di templi e la nostra guida non ha mai omesso di prostrarsi e pregare davanti ad ogni statua del Buddha e si è preoccupato di farci benedire da qualunque monaco fosse disposto a farlo.

Detto questo si può pensare che la religiosità dei buthanesi sia fin troppo legata agli aspetti ritualistici della religione, ma non è così Esistono moltissimi monaci, ma non tutti sono dei religiosi nel senso in cui lo intendiamo noi, alcuni sono dei semplici servitori, altri sono dei veri esperti in religione. Gli studi dei monaci iniziano in tenerissima età e proseguono fino alle scuole superiori. Alla fine di queste, un durissimo esame di selezione suddivide gli studenti che avendo riportato risultati meno brillanti verranno indirizzati verso lo studio dei rituali religiosi (e diventeranno i monaci a cui le famiglie ricorreranno in occasione di importanti riti di passaggio) da quelli, con risultati eccellenti, che potranno accedere agli studi filosofici, e che costituiranno la casta sacerdotale più elevata e più stimata. Un santo particolarmente venerato in Buthan è il cosiddetto “Santo pazzo”. Si tratta di un saggio vissuto a cavallo del 1500, noto per il suo comportamento provocatorio ed iconoclasta. Si dice che fosse amante del buon cibo e del buon vino, che avesse moltissimi figli illegittimi e che fosse addirittura solito orinare sulle immagini sacre. Viene molto venerato perché il suo atteggiamento (dettato ,si dice, …in parte … dalla sua follia) era volto a dimostrare che non conta rispettare i riti ed i precetti religiosi, ma la cosa veramente importante è capire la vera essenza dell’insegnamento del Buddha e che l’illuminazione si raggiunge solo per questa via, (che può passare anche attraverso i piaceri della vita) non attraverso lo sterile ripetersi di riti ed il seguire regole rigide. In Buthan questo soggetto fu riconosciuto come un santo, da noi, nella stessa epoca, si finiva sul rogo per molto meno. Chi sarebbe stato così aperto di vedute da riconoscerne la santità?

I butanesi sono gentili allo stesso modo con le persone e con tutti gli esseri viventi. Se andate a spasso per le strade di campagna sarete spesso seguiti da uno o più cani randagi. Vi seguono per il piacere della vostra compagnia, non perché sperano in qualche bocconcino, perché qui i cani randagi non sono affamati. Tutti nutrono i cani perché è un dovere religioso e perché li amano, infatti appaiono ben nutriti e relativamente sani. All’esterno di un ottimo ristorante in prossimità del passo di Chuka in una radura di bosco di abeti, ci siamo imbattuti in un gruppo di veterinari che aveva allestito una sala operatoria all’aperto con tanto di flebo, anestetici e tavoli operatori. Intorno si aggiravano cani ancora parzialmente anestetizzati e con un cerotto attorno alla zampa. Mi è stato spiegato che stavano operando interventi di sterilizzazione. Dal momento che gli animali in soprannumero non possono essere uccisi, i cani randagi vengono sterilizzati a spese del governo, da giovani veterinari tirocinanti.

In territorio butanese sono stati creati numerosi parchi nazionali con lo scopo di proteggere la particolarissima fauna locale, caratterizzata da numerose specie endemiche, uno in particolare è dedicato alla protezione dello Yeti. Si, avete letto bene. I butanesi non mettono minimamente in dubbio che lo yeti esista, ed in ogni caso la nostra guida ci ha spiegato che , anche se vi fossero dei dubbi, non proteggere l’ habitat dell’ominide in tempo significa rischiare che si estingua ancora prima di averlo individuato. Del resto il fiore simbolo del paese è il papavero blu, che gli occidentali sostenevano non esistesse, finché un botanico inglese nel 1933 non lo ha individuato in un pascolo ad altissima quota.

In tutti i centri più importanti del paese è presente uno Dzong, vale a dire un massiccio palazzo fortificato, (inutile dirlo in posizione dominante e strategica) dalle massicce mura bianche sormontate da sovrastrutture in legno decorato ed intagliato e, spesso, tetti d’oro. La loro funzione era analoga a quella dei nostri castelli medioevali. I complessi sono suddivisi in due parti, una dedicata al potere religioso e l’altra a quello civile, entrambe caratterizzate da un ampio cortile lastricato sul quale si affacciano monasteri o uffici pubblici. A nessuno, fatta eccezione per i monaci, è consentito restare all’interno di uno Dzong dopo il tramonto.

I templi sono ricoperti da coloratissimi dipinti raffiguranti l’ampio panteon butanese, il paradiso o le principali leggende. Colpiscono le incombenti raffigurazioni delle divinità protettrici che ai nostri occhi di occidentali appaiono veramente minacciose e talvolta terrificanti. In realtà si tratta di demoni che sono stati sottomessi da potenti santi che hanno soggiogato la loro natura malvagia trasformando la loro aggressività in energia benefica e protettrice. Per creare il bene occorre il male, e più il male è terribile, più il bene diventa potente. Nella stagione invernale nei cortili dei principali templi si svolgono imponenti danze, ove i monaci indossano elaborati costumi e mascheroni rappresentanti i principali demoni e le stesse divinità protettrici, allo scopo di renderli famigliari ai fedeli, i quali incontrandoli dopo la morte devono essere in grado di riconoscerli e seguirli in paradiso senza farsi spaventare e precipitare nell’inferno.
Ed è proprio la sensazione di precipitare quella che si prova percorrendo il ripidissimo sentiero che conduce al monastero di Taksang (il rifugio della tigre volante) (2 ore di salita e più di 700 m di dislivello). Sono stata più volte sul punto di rinunciare per la mancanza di fiato e la quasi certezza di scivolare sul terreno reso scivoloso dalla pioggia e (per fortuna solo per il primo chilometro) dagli escrementi dei muli, ma ogni sforzo è stato compensato da una vista inimmaginabile. Lo spettacolare tempio bianco è arroccato come il nido di un’ aquila e compare improvvisamente alla vista dopo un ultima ripida curva. La vista ti toglie il fiato, ancora di più della scoperta che per raggiungerlo devi percorrere ancora una ripidissima discesa, attraversare un ponte che supera una cascata e risalire un sentiero altrettanto ripido fino alla prima delle tante scale del monastero. All’interno si può entrare in pochissimi e con mio grande dispiacere è necessario lasciare l’attrezzatura fotografica in deposito. Comunque gli ambienti che si susseguono, dedicati a vari maestri e santi, sono tra i più suggestivi che si possano immaginare, ed anche senza l’aiuto della macchina fotografica, non si rischia di dimenticarli. Si può anche vedere una roccia bruciacchiata dove si è schiantato un demone durante un epica battaglia nei cieli. Ed anche se le mie gambe si sentivano come se mi fossi schiantata anche io, il nido della tigre volante è senz’altro il luogo che non potremo dimenticare.

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